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Piccoli passi di formazione

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Imparare è sempre ribellione. Ogni brandello di nuove verità scoperte è rivoluzionario rispetto a ciò che si era creduto prima.

Margaret Lee Runbeck

Il Comitato di Collaborazione Medica (CCM) mi ha proposto di dare una forma pratica alla mia formazione teorica in Medicina tropicale e Salute Globale attraverso uno stage presso l’Ikonda Mission Hspital in Tanzania. Partire per un mese di lavoro, a fianco di volontari esperti e del personale locale: quale migliore occasione per rendermi conto di come si possa lavorare in un Paese in Via di Sviluppo?
Ho deciso di mettermi in gioco in un'esperienza che sarà per me formativa e, parallelamente, di mettermi alla prova scrivendo questo diario, per condividere il mio lavoro, i miei pensieri, i piccoli grandi traguardi che spero di raggiungere.
Fin d'ora vorrei restituire un po' di quello che mi darà questo viaggio e coinvolgere anche voi nel mio impegno: mentre vivrò un'esperienza formativa, vorrei dare una mano al CCM, sostenendo la formazione di un altro prezioso operatore sanitario, ovvero un'ostetrica.

Aiutatemi anche voi a raggiungere il mio obiettivo... E seguite la mia "avventura"!

 
Benvenuti in Tanzania
Jambo! Dopo due giorni di viaggio siamo arrivati a Ikonda! È un posto particolare: siamo a 2000 metri di altitudine, prati verdi, montagne morbide e terra rossa di argilla. L’ospedale è un grosso complesso a un solo piano con il tetto di mattoni e non di lamiera come usa qui intorno, pavimenti piastrellati, tutto pulito e ordinato. Il personale locale ci ha accolti con gentilezza. Negli anni è stato fatto molto per rendere l’ospedale efficiente e dare alla popolazione un servizio dignitoso e superiore allo standard.
Per fare degli esempi: ci sono camere da 3 letti e un bagno ogni 6 e non stanzone miste, ci sono ecografi nei reparti, sono stati trasportati a 2000 m un Gene Expert per riconoscere precocemente i casi tubercolosi resistenti agli antibiotici e un Elysa per diagnosticare infezioni diffuse (come hiv, hcv, sifilide e hbv) e trasfondere sangue non contaminato. Forse per chi non è un sanitario sembreranno futilità ma sono dei grandi traguardi.
Ovviamente i letti non bastano e ci sono barelle e letti in più un po’ ovunque nei corridoi. La popolazione cammina per km per arrivare fin quassù e i parenti alloggiano in strutture predisposte nei pressi del centro per assistere i propri cari e cucinare il pasto. Per molti consisterà in una polenta bianca, l'ugali e forse qualche verdura e fagioli.
Ci sono problemi sul numero e sulla formazione del personale, anche se a Ikonda si è molto investito in questo. Studiare è costoso e difficile, un lusso per pochi. Ma una delle cose veramente utili che possiamo fare è proprio dare l'occasione di formarsi, trasmettere ciò che sappiamo essere la buona pratica. Per questo motivo bisogna continuare a investire sulla formazione. E in questo mi potete aiutare!
Oggi andremo a visitare i dintorni della missione. Vi manderò qualche foto per farvi vedere questo luogo incredibile e i suoi abitanti.
Kwaheri (arrivederci)
 
Il lavoro all'ospedale e la mia vita a Ikonda
Da lunedì ho iniziato a lavorare in ospedale presso  la medicina uomini affiancata dal dott Gian Paolo Zara e dal dott Dino e Claudia e con il gruppo Tanzania di infermieri e medici. Il reparto è grande, circa 50 malati più i letti in corridoio. C’è un unico medico giovane e un paio di infermieri di giorno e un unico di notte. I malati sono per lo più hiv positivi e/o con patologie del fegato e infezioni polmonari e Tubercolosi.
Non è semplice cambiare mentalità e lavorare ragionando sul non sprecare in alcun modo le risorse materiali e non fare il confronto fra ciò che si potrebbe fare per alcuni malati in Italia e ciò che è fattibile ed economicamente sostenibile. Qui tutto si paga (anche se molto meno che nel resto del Paese per volontà di Padre Sandro): dalla siringa al farmaco, all'analisi di laboratorio, perciò bisogna riflettere su cosa serve veramente.
Ovviamente sapere lo swahili sarebbe utile con i pazienti, ma per fortuna il personale Tanzania ci fa da intermediario!
Martedì abbiamo avuto un po’ di movimento in reparto perché è arrivato un malato sieropositivo in shock per sanguinamenti gastrointestinali e crisi epilettiche. Stiamo cercando di fare il nostro meglio ma non è facile da gestire in questo contesto. Per fortuna da oggi pomeriggio gli è scesa la febbre e abbiamo iniziato ad alimentarlo via sondino nasogastrico con un intruglio di nostra invenzione di porridge, plumpinnut e acqua. Speriamo.
Oggi un edema polmonare acuto in cirrotico. Ieri sera in pronto soccorso un ragazzo con trauma da motocicletta ridotto molto male e con edema cerebrale. Per portarlo qui hanno fatto 30km di strada sterrata in auto senza bloccargli il collo e la testa perché nell’ospedale statale a parte le lastre e una fasciatura della gamba (ha una frattura scomposta femore) non gli facevano niente da un giorno.
Ieri tra le altre cose mi è stata data l’opportunità di andare con le infermiere/ostetriche di pediatria a fare la mobile clinic presso un villaggio a 30minuti di strada sterrata dall’ospedale.  Il nostro obiettivo era valutare se i bimbi sotto i 5 anni, popolazione a rischio, rispettano i percentili di crescita e a visitare le mamme incinte. Abbiamo stimato in modo rudimentale (con le mani, uno stetoscopio e un metro) l’andamento della gravidanza  per approssimare il periodo del parto e quindi suggerire quando fare i controlli e quando recarsi in ospedale. È stato magnifico! Ci hanno offerto il pranzo di patate dolci stufate e bananine. Alle mamme dei bimbi sottopeso è stato consegnato un sacchetto di farina e dell’olio e qualcos’altro di proteico e tra un mese si rivedrà la situazione. Le infermiere hanno istruito le mamme su come nutrire a sufficienza i loro bimbi... parecchi avevano le panciotte gonfie da parassiti e quindi abbiamo dato loro anche antiparassitari.
Qui la metodica più utile per fare diagnosi è l'ecografia, come sempre più dimostrato nei Paesi a basse risorse, perciò i miei compagni di viaggio si stanno prestando a farne in reparto e in pronto soccorso e magari verso fine mese proverò anche io a rinnovare le mie poche conoscenze apprese in merito durante il mio master.
Le giornate iniziano abbastanza presto (un lusso in realtà per noi infermieri) con colazione alle 7, alle 8 briefing dei reparti, poi al lavoro fin verso le 17-18, con una mezz'ora di pausa per il pranzo. Alle 19 cena e poi, se non ci sono casi bruttini nel proprio reparto, si è liberi. Se non si lavora fino al tramonto si cerca di fare qualche passeggiata nei dintorni, piogge permettendo perché qui, a 2000 metri di altezza, i sentieri sono in salita e l'argilla bagnata diventa scivolosa. La sera si conclude presto: dopo il tg siamo tutti propensi ad andare in stanza. C’è chi legge, chi studia, chi guarda le stelle.
Sempre più mi rendo conto di quanto avere un’educazione scolastica aiuti a migliorare la propria vita e quella di coloro che si hanno intorno... perciò ribadisco: sostenete CCM e questo mio progetto!
Spero di avervi un poco catapultati con me a Ikonda!
Kwaheri!
 
Tra chirurgia e... cavallette
Habari! Questa settimana sono stata trasferita in chirurgia con l’obiettivo di far maturare nel personale un interesse maggiore nella valutazione input&output dei pazienti ricoverati con situazioni critiche, come si usa fare nell’unità subintensiva dove lavoro a Torino. Non è un’attività particolarmente faticosa è complesso farne comprendere l’importanza al personale, soprattutto infermieristico, e farla divenire un’abitudine. In sostanza, significa controllare i liquidi introdotti e quelli espulsi dal corpo malato tramite diuresi, drenaggi, sondino, sudorazione per capire quale sia il bilancio.
Direte tutti “ma che ci vuole?”. La risposta è che ci vogliono tanta pazienza, costanza e un po’ di rigore. In primo luogo perché non è facile modificare, anche se di poco, le abitudini lavorative soprattutto se non se ne sente la necessità e se a proporlo è un’infermiera italiana che avrà almeno dieci anni di meno e viene dal “Paese dei Balocchi” dove si ha tantissimo personale e un sacco di macchine che fanno tutto al tuo posto (ovviamente queste sono le considerazioni falsate che mi stanno portando gli infermieri dei reparti dove sto prestando servizio), in secondo luogo se c’è una carenza formativa alla base.
Devo ammettere che si sta dimostrando un impegno a tratti frustrante pur nella sua banalità e che forse non abbiamo ancora trovato la strategia per proporre la procedura in maniera efficace. Ma non demordiamo perché è un passaggio importante ed è un passo di responsabilizzazione degli infermieri verso il paziente.
Ovviamente questo obiettivo non sta assorbendo tutta la giornata perciò ho partecipato all'invio in sala operatoria e al recupero dei malati in seguito, alle medicazioni post-intervento, al recupero delle attività come l’alimentazione dopo grandi interventi addominali e purtroppo anche ad alcuni aggravamenti e decessi. In tutte queste fasi ci sono stati momenti di meraviglia da parte mia (come quando ho visto le barelle della sala operatoria molto simili alle barelle di guerra da cui spuntano testa e piedi), di momentanea difficoltà di adattamento alle abitudini locali e di mediazione tra ciò che so essere una buona pratica, ciò che si può fare qui e quello che di buono mi posso portare a casa del differente approccio. Penso ad esempio alla capacità di rendere anche la mediazione di un paziente un momento di dialogo confidenziale e anche spiritoso con quest’ultimo, senza perdere di attenzione all’attività, magari prendendosi un paio di minuti in più. Non sempre pole pole (piano piano) è sinonimo di inefficienza.
Ci sono momenti di scoperta divertenti: il signor O, albino, con un'estesa ferita post-operatoria sul dorso per un sospetto melanoma, che tra il mio inglese a tratti maccheronico e uno swahili stentato capisce che ho fatto in modo che gli rifacessero la medicazione in ambulatorio di Dressing, dove hanno più materiale a disposizione e più atraumatico, per non farlo soffrire come i due giorni prima e perciò ogni volta che gli passo affianco mi dice asante (grazie) e giunge le mani in segno di ringraziamento. Oppure come Rebecca, una bambina di dieci anni che la prima volta che mi sono avvicinata era spaventata ma ora mi fa un sorriso, perché ho capito come rispondere correttamente al suo saluto mattutino e non le ho procurato maggiore dolore di altri solo perché ho la pelle chiara.
Intanto sta finendo la stagione delle piogge e arriva l'inverno con una discesa della temperatura, tanto che ormai non basta più la maglia al mattino e alla sera. Negli ultimi giorni siamo partecipi di un evento, tipico del mese di maggio, a dir poco coreografico: l’invasione delle cavallette! Ora capisco perché erano una delle piaghe d’Egitto! Il cortile dell’ospedale ne è disseminato e questa sera sembrava grandinasse sul tetto di lamiera. Con gli insetti sono arrivate anche tante cornacchie e un airone cinerino. La gente raccoglie cavallette a manciate, anche i bambini dell’asilo che hanno notato la nostra sorpresa e allora ce le portano a vedere… furbetti!
Usiku mwema (buonanotte)
 
Miscellanea di riflessioni minute
Mambo! (E voi dovreste rispondere Poa!).
O ancora, se non vi conoscessi bene e volessi rivolgermi a voi con rispetto: Shikamoo (a cui dovreste rispondere Maharaba).
Sto facendo progressi con lo swahili!
Un’altra settimana è trascorsa ed è quasi tempo di bilanci ma anche di riflessioni.
Molte persone si chiedono perché, in un Paese in cui l’HIV è così diffuso, le persone non usino il preservativo o perché mettano al mondo tanti figli se poi non li possono dignitosamente mantenere. Io non ho una risposta a queste domande, ma posso ci ho pensato molto e sono giunta a qualche conclusione. Iniziamo dal lato pratico: i preservativi, come tutto il resto, hanno un costo e, punto focale, se non ci si rende conto della gravità di un problema, del rischio e delle vie di contagio, di certo non si cercano soluzioni. Molto si sta facendo in Africa sull’educazione alla popolazione, ma ancora non basta. E questo mi porta ancora una volta a ribadire l’importanza della formazione del personale sanitario.
Il particolare più interessante e forse più esplicativo però è questo: qui i figli sono la più grande ricchezza. È incomprensibile che una persona adulta non abbia figli se non per problemi di salute. Quando una donna diventa madre, perde addirittura il suo nome e diventa Mama più il nome del suo primogenito. Ciononostante il numero di figli pro capite è diminuito poiché anche qui la popolazione si sta dirigendo dalle campagne alle città adattandosi a un tipo di vita differente dalla shamba, i campi.
La Tanzania in questi mesi sta attraversando un momento critico per l'economia che potrebbe oltremodo aggravarsi a causa di una direzione sempre più autarchica del Paese e del suo Presidente. Nella missione non si sta percependo la crisi per ora, ma gli approvvigionamenti di alcuni materiali, come fili di sutura, sono sempre più complicati e gravati da tasse di importazione. Più volte, a tavola o al meeting del mattino, Padre Sandro ripete amareggiato che se va così, se aumentano ancora le tasse sugli ospedali e il visto che devono pagare per lavorare gratis per questo Paese, c’è il rischio di chiudere tutto. Si capisce subito che è una minaccia fasulla, perché lui ci mette il cuore in questa missione, ma è un momento delicato, in cui molti investitori esteri si stanno retraendo.
 
Confronto interdisciplinare e diffidenza
A Ikonda capita spesso di sentirsi un po’ persi e di avere dubbi e necessità di confronto. Medici e clinical officer (figure di formazione intermedia tra infermieri e medici) si interrogano su terapie, possibilità di intervento, esami disponibili e sostenibili dai pazienti. Non è raro vedere noi espatriati con cellulare connesso su piattaforme come Medscape e consulenze improvvisate in corridoio o vicino all'ecografo di Gian Paolo (il dottor Zara) per avere un confronto con un senior doctor o anche per concordare un counselling a un paziente. Di questa attività si occupa il patron, figura che non saprei come tradurre nel contesto italiano, che è al di fuori dei reparti e si occupa per lo più di gestire i rapporti con parenti e pazienti e di assicurarsi che abbiano compreso le decisioni mediche, che possano affrontare i trattamenti previsti e mediare con i prontuari territoriali per poi riferire al medico incaricato. È una figura indispensabile a Ikonda e, nella fattispecie, una persona molto gentile, semplicemente deliziosa.
Perché voglio sottolineare questo aspetto? Perché non è così frequente, anche in realtà più “evolute”, un confronto tra professionisti senza che ci siano moti di presunta superiorità o critica totale del lavoro altrui. Ho notato che qui c’è maggiore rispetto e critiche e scambi di opinioni sulla gestione dei pazienti si svolgono civilmente durante il meeting e non alle spalle del collega. Impressione parziale ovviamente la mia, data anche dalla mia pessima conoscenza della lingua locale!
Potrebbe sembrare ossimorico ma se da un lato vedo il confronto, dall’altro percepisco la difficoltà di trasmettere le nostre conoscenze ed esperienze al personale locale. È un aspetto tra i più frustranti e discussi tra i volontari, che spesso ci lascia amareggiati o con la sensazione che sia tempo sprecato.
Vi faccio un esempio: da giorni sto cercando, senza alcuna pretesa di superiorità, di ribadire alcuni concetti igienici nello svolgimento delle medicazioni delle ferite chirurgiche, come di non passare con la stessa garza dallo sporco al pulito, sciacquare il perossido d'idrogeno, lavarsi le mani da un paziente a un altro, ecc. A volte mi pare una battaglia persa, poi ascolto Gian Paolo che ripete «tu fatti forza dell’inconfutabile evidenza scientifica e mostragliela» e Claudia che mi ha fatto riflettere sul fatto che nessuno si fida da subito degli altri appena si presentano, solo perché posseggono con un titolo accademico superiore e sono europei, ma che la fiducia e la formazione richiedono tempo e perseveranza e che noi passiamo e andiamo ma loro rimangono con i loro sessanta pazienti.
Perciò ieri sera ho cercato su internet delle indicazioni scientifiche in inglese alla base di una delle mie “battaglie”, le ho fotografate e le ho fatte leggere ad Anna, l’infermiera oggi addetta alle medicazioni. Non so se per darmi soddisfazione o per presa di coscienza, ma quel passaggio con lei ha avuto effetto positivo. Piano piano il personale locale inizia a fidarsi di me, se non altro perché cerco di mostrare interesse e impegno.
E per oggi è tutto! Kwaheri!

Kwaheri Ikonda
Sono trascorsi alcuni giorni da quando ho lasciato Ikonda e sono rientrata a Torino e vorrei chiudere questa esperienza con un'ultima immagine del viaggio e un ringraziamento.
Come immaginavo, un mese è un periodo troppo breve per capire effettivamente come si lavora in un Paese del sud del mondo e certamente ti lascia la sensazione di dover ripartire sul più bello: quando ti sembra di aver colto dei meccanismi, di aver intuito come lavorare e su cosa investire altre energie, ecc. Ciononostante, posso dire che questo periodo seppur breve mi ha dato occasione di farmi una fugace idea di quali risorse siano a disposizione, di quanto il contesto influisca sul lavoro e di quanto faccia la differenza un personale preparato ed entusiasta sulla vita dei malati (che magari percorrono giorni di viaggio per venire fino all’ospedale) e sulla qualità del lavoro.
Il viaggio di rientro ci ha permesso di attraversare regioni climatiche differenti della Tanzania: dai boschi di conifere e dal fresco di montagna di Ikonda alle pianure della coltivazione del thè, il Bora chai, e ai baobab del parco del Mikumi, fino alla caotica megalopoli di palazzoni e baracche che è Daar el Salam. È stato un regalo speciale poter allontanarsi così dall’esperienza di Ikonda.
E ora: ringraziamenti!
Innanzitutto al Comitato Collaborazione Medica per la possibilità offerta e a Ikonda Consolata Mission Hospital per l’ospitalità. Al personale locale, alla comunità e ai volontari italiani per il supporto e le occasioni di crescita personale e professionale. E infine a tutti coloro che hanno letto, condiviso e partecipato a questo blog, donato tempo e denaro per il progetto. Grazie a tutti!
Come mi è capitato più volte di dire a Ikonda: Mungu akipenda, tutaonana (se Dio vorrà, arrivederci)

 

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