With a little help from my friends-Roberta Mannarella
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With a little help from my friends

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Ho cercato ma niente. Un tutorial su come raccontare in due parole la tua storia senza che sembri melensa, o che possa lasciar trapelare il panico ancora irrisolto da pagina bianca.

Prof, non so che scrivere! Concentrati, pensa all’immagine, fai brainstorming.

Cerchio-corolla-Giotto-grandeO-espressione di stupore.

 

Più piccolo, un cerchio più piccolo: cerchietto-orecchino-anello-FrodoBaggins. Concentrati.

Pallina da tennis-pallina da badminton-Flyers lesson 1: spiega la differenza tra tennis e badminton.

No! Concentrati: pallina da ping pong-boccia-biglia.

Biglia.

Biglia (o bilia) è una qualunque sfera delle dimensioni tra 1 e 1,54 centimetri circa usata in vari giochi, ad esempio per corse su pista o per centrare buche per terra o biglie avversarie.

Ecco. La biglia era proprio quello che mi serviva.

Cominciamo.

 

Mi chiamo Roberta, ho 30 anni ma ne avevo appena compiuti 28 quando ho scoperto la mia biglia.

Insolito, direte voi, è il gioco più antico di sempre, insieme alla Campana, Guardia e ladri e Un due tre stella – che, tra l’altro, ho amaramente scoperto chiamarsi “Un due tre stai là”. Stessa delusione di “Specchio, servo delle mie brame” e “il suono prodotto dallo schiocco delle dita è dato dal contatto tra l’indice e il palmo.”

Comunque, dicevo.

 

Mi chiamo Roberta, ho 30 anni ma ne avevo appena compiuti 28 quando ho scoperto la mia biglia.

Era una di quelle sere post cardio-fitness acquatico, unica attività fisica che vince contro la mia pigrizia atavica quando si tratta di andare oltre il mero spostamento dalla sedia, al sedile, al divano, al letto.

Una di quelle sere fiacche, in cui ti senti particolarmente scarico e l’insegnante ti suggerisce di raggiungere la prima fila per prendere aria. Una di quelle, in sostanza, in cui la doccia con cromoterapia sembra essere l’unico tuo vero desiderio, assieme a quello di avere la fantasia di J.K. Rowling. E anche un bel culo, in senso letterale e figurato.

Un vezzo di mia madre, la cromoterapia. Lei sì che di fantasia ne aveva, tanto che forse della Rowling sarà stata la ghostwriter.

Ahhhhhh questo divagare! Insomma.

Mi accorgo della mia biglia sotto la doccia. Set comune a tutti gli scopritori di biglie. La doccia, lo specchio. Fai in fretta, che Vito è già sul divano e vuole vedere Penny Dreadful.

Braccio sinistro su e l’altro sotto il seno.

Forse il genio deve avermi ascoltato e nel giro di 10 minuti ho la fantasia della Rowling, soprattutto quella degli ultimi Harry Potter, perché quello che prende forma nella mia testa è uno scenario più che apocalittico.

“Hai finito? Vieni?”

 

 

Sì, arrivo.

Mi vesto comoda, indosso una felpa che sa di casa, mi lancio sul divano con il mio solito fare leggiadro, Vito mi guarda con l’espressione rassegnata di sempre. La mia spontaneità è goffa, lo so, ma è al sicuro con lui.

Play.

So che adesso è concentrato su Eva Green, lo sarei anch’io. Seguo i climax della serie con una mano davanti agli occhi, l’orecchio che preme sulla spalla e l’altro che percepisce i suoni. Ho sempre provato terrore per le combinazioni di buio e rumore, ho bisogno di attutirli per non sussultare.

Sono distratta, sposto la mano dagli occhi alla felpa, dentro la felpa.

Il materiale più usato per le biglie era (ed è ancora) il vetro.

Non sembra vetro.

Buio e rumore, devo coprirmi gli occhi.

 

Quando comunico a mio padre che penso di avere una biglia dentro, lui mi dice di non preoccuparmi, sicuramente è un rivolo del mio sangue da scrittrice mancata. Perché insomma, bisogna avere culo per fare un ambo di biglie, in quello che resta di questa famiglia sgangherata.

Di lì a poco avrei scoperto che anche il secondo desiderio si sarebbe avverato.

Il bel culo. In senso figurato.

 

Vado in ospedale con zia, Igor e Vito che, tra tutti, è quello che l’ansia la gestisce peggio. Non a caso resta fuori con il cane.

Ad accogliermi, il Professor S.

Mi ricorda qualcuno di mia conoscenza, ma con un’espressione più seria.

Mi stendo serena perché diciamocelo, 28 anni non è tempo di biglie.

Cosa fai nella vita? Insegno inglese. Ah sì? Io non sono bravo in inglese. Aggiungiamo una tacca al libro contabile come facevano i Sumeri, e proviamo a distrarci facendo una stima degli italiani che parlano inglese, di quelli che lo parlano male, di quelli che “capisco ma non riesco a parlare”.

Indugia con l’ecografo: Come te ne sei accorta? Gli racconto tutto con chiarezza, voglio agevolarlo fornendogli uno scenario preciso per tracciare un percorso breve, circoscrivere il triangolo di gioco.

Si rivolge alla specializzanda mostrandole come “anche qui ci sono quattro o cinque biglie, ma questa che hai sentito è diversa dalle altre”.

Diversa.

Il professor S. mi spiega che il materiale più usato per le biglie era (ed è ancora) il vetro,

(ma questo lo sapevo già)

generalmente colorato in varie tonalità.

Obiettivo della nostra sfida è scoprire che tipo di biglia è la mia. Per farlo, devo tornare il martedì successivo per un’avvincente bigliopsia.

E sebbene il carattere dell’avventura da sempre mi entusiasmi, sono preoccupata. L’ultima partita in casa l’abbiamo persa miseramente neanche due anni fa, chi glielo dice a mio padre che dobbiamo rigiocarci?

 

generalmente colorato in varie tonalità.

 

Chissà di che colore è la mia biglia. Quanto vorrei poter scegliere, come tra gli scaffali di in un negozio. Il nero snellisce, il blu è il mio preferito, il bianco, quello no, mi illumina il volto ma mi sta male, il bianco è il rumore più forte e io non lo voglio provare.

 

Alla bigliopsia partecipa anche mia zia. S’io fosse foco, direbbe Angiolieri, lei arderebbe con me. Anche se fossi acqua, vento e tutti gli altri elementi naturali in cui ho perso o rotto un cellulare. Mentre l’ago affonda, ricordo quella mattina d’inverno con Ezio. Le foto bellissime con il mio Huawei nuovo di zecca, lui tra gli alberi con la coperta, la luce speciale della neve, temo anche quella. È lì che ho perso il telefono nuovo.

Fa che non sia bianca, la mia biglia. Non so a chi rivolgermi, parlo alla Scienza che, nel grande universo di fanatismi in cui vivo, sembra l’unica religione affidabile. Impietosa ma reale, foriera di una misura di speranza ponderata, distribuita a piccole dosi, senza fantasie né raggiri.

 

Attraverso la porzione di tempo da quel momento all’ora X con atteggiamento impavido ma consapevole. Ora sulle biglie so tutto: in che modo ottenere il movimento per le corse in pista e per il lancio aereo, la posizione delle dita e l’impatto sul percorso, le caratteristiche di una sfida amichevole, le complicazioni nel livello agonistico.

 

I giorni diventano settimane ma sono pronta a tutto, ho la colonna sonora di Rocky nelle orecchie, lo stesso fiero coraggio. Ripeto ogni giorno, come un mantra, “Worrying is a bit like walking around with an umbrella, waiting for it to rain” e me ne convinco.

Cedo una volta soltanto.

Una volta sotto il gazebo della scuola, durante un momento di agognato relax.

Lì, con una luce fioca a definire il nostro spazio sicuro, a Maria Teresa rivelo la mia preoccupazione per il colore della biglia. Non voglio che sia bianca, le dico.

E mi sgretolo mentre lo dico, e sento scivolarmi addosso piccoli pezzi di me, i postumi di un cremino addentato male.

 

Non racconterò del senso di assoluto smarrimento nei momenti che precedettero la battaglia. Solo un dettaglio continua a espandersi e ritrarsi come una macchia di acrilico sul legno della tavolozza. Sono le mani di chi ha piegato il referto prima di consegnarmelo, avendo cura di imbustarlo come si deve, la prima, la seconda volta, perché l’involucro lo contenesse per bene e lo tenesse fermo. Come quando ti sorprende il richiamo di “Un, due tre, stella!” e tu sei costretto a fermarti, in una posa scomoda e ridicolissima.

 

La fase 1 dell’operazione biglia bianca fu fissata per il 12 dicembre 2017.

Giro di telefonate per chiamare a rapporto tutti i miei sostenitori, ma con discrezione. Paolo mi suggerisce di raccontarlo almeno ai nostri amici più stretti, ché di certo avrebbero voluto partecipare in diretta streaming, con tanto di fischietti e cappellini.

Ritengo sia il caso di assecondarlo, dopotutto non è un’esperienza che capita tutti i giorni e io sento di potercela fare, with a little help from my friends.

“Allora ragazzi, il 12 dicembre non prendete impegni, estrazione biglia presso la MD, chirurga B., anatomopatologa A., facciamolo.”

 

Ho un pigiama super cool scelto per l’occasione – le gare di biglie, si sa, si affrontano in pigiama! - il libro di inglese sul letto e accanto una dolce compagna di stanza che avrei scoperto solo quella notte essere in realtà un NEW HOLLAND T4.95F reincarnatosi nel corpo di una vecchietta.

In sala d’aspetto mio padre, Vito, i miei zii e mia cugina Viviana alle prese con un irriverente tappo di bottiglia che le finisce dritto nell’occhio – menomale che siamo già in ospedale.

 

Il trasporto in sala me l’ero figurato come in una di quelle puntate di Grey’s Anatomy; tuttavia, dell’orda di chirurghi avvenenti neanche l’ombra.

Prima di iniziare, la dottoressa B., incaricata dell’operazione, mi fa una domanda interessante: “Che cosa vuol dire questo tatuaggio?”. Mi guardo il braccio sinistro come sorpresa dal fatto che ce l’abbia ancora e le rispondo “È islandese. Un buon inizio”, questo vuol dire.

“Lo sarà di certo”, mi risponde. “Fai un bel respiro”.

 

Devo essermi persa il bello della gara, come ogni volta che guardo un film sul divano e non ricordo bene quando mi sono appisolata, eppure, mi ritrovo ancora un po’ intontita a salutare la donna-trattore, in una staffetta tragicomica.

 

Le mie zie sono felici di vedermi, pare abbiano aspettato per ore, eppure sono ancora vigili e pronte a negoziare su chi trascorrerà la notte nella mia insolita stanza.

 

Si susseguono volti amici, ben preparati a nascondere la tensione, poi arriva la dottoressa B. “Come stai, Roberta?”. Con lei voglio essere sincera “Potenzialmente bene”, le rispondo e abbozzo un sorriso inquisitore. Che ne è della mia biglia?

 

“L’abbiamo rimossa e analizzata. Bruttina, la tua biglia, ma il percorso non si è allungato ai linfonodi. Dovrai sottoporti a numerosi esami, adesso: tutti gli esami ematici, bigliatac, scintigrafia biglica, prima di una bella visita oncobiglica. Dovrai sicuramente fare la radiobigliapia, comunque.”

 

Ostacolata nel sonno dalla mia compagna di stanza, trascorro la notte passando in rassegna la quantità di esami a cui avrei dovuto sottopormi. Un album di figurine tutto ancora da riempire, un’esperienza semi-nuova da vivere come protagonista. Cosa avrebbero pensato i miei amici di me? Avrebbero provato pena? Sarebbero stati fieri del mio approccio positivo? E mio padre?

 

I miei pensieri vengono distratti dal richiamo visivo dell’alba, che comincia a tingere il cielo silenziosamente. Zia, guarda!

Mi aiuta ad alzarmi e ci avviciniamo alla finestra. In quel momento capii perché mia madre aveva tanto insistito per la cromoterapia.

Quella fu l’alba più bella che avessi mai visto e, ho ragione di credere, lo resterà per tutta la mia vita.

 

Ebbe così inizio la fase 2.

Da studentessa modello, feci tutti gli esami. Uscendo da un posto ed entrando in un altro, con mia zia s’io fosse foco accanto e dentro un’inesauribile voglia di scoperta del funzionamento di quei macchinari superevoluti. Ero preparata, inserivo ogni risultato nel mio raccoglitore verde mela etichettandolo con data, luogo e tipo di esame. Ai risultati negativi – che poi sono positivi, che confusione, sarà perché ti amo - allegavo anche un simpatico post-it con una faccina sorridente, sicura che di lì a poco avrebbero optato così anche per un test neurologico.

 

A Milano ci sono andata con Vito. Esistono luoghi gentili per definizione. Lo IEO è uno di quelli. Tra pulsanti da schiacciare su postazioni user-friendly e desk assediati da file ordinate, la gente cammina in plurime direzioni, mentre noi restiamo spettatori delle vite degli altri così disperatamente simili alle nostre.

 

Il mio incontro con l’esperta oncobiglica si conclude dopo qualche tempo con un responso terapeutico: “Radiobigliapia più terapia ormonale per almeno cinque anni.” Poi, valuteremo il da farsi.

 

Facevo la radiobigliapia in pausa pranzo, perché volevo lavorare. Scelta che raccomando a tutti, sotto il sole di maggio.

 

Presto imparai che cosa fosse un Gantry, che delle due stanze per la radiobigliapia preferivo quella con le palme sul soffitto, piuttosto che quella con il cielo azzurro e le nuvole. Imparai il nome di tutti i tecnici, ad alzarmi piano dal lettino ma soprattutto, imparai a trattenere il singhiozzo durante il trattamento – quest’ultima circostanza, vi assicuro, è da annoverare tra le esperienze più esilaranti della mia vita. Imparai anche che il gelato al cioccolato ha un sapore più intenso se condito da amicizia e coraggio.

 

Alla radio, unii la terapia ormonale entrando così nella fase della vita più temuta da tutte le donne: la bigliopausa. Avvalorai così anche biologicamente la tesi ormai ritrita sulla mia vecchiaia, a cui tutti eravamo già da tempo affezionati.

In una delle nostre chiacchierate sulla vulnerabilità, dissi a Valeria che temevo di non riuscire a splendere, negli anni più belli della mia vita. Non dimenticherò mai il modo rassicurante in cui mi disse “Stai tranquilla, c’è luce. Splendi già.” Così come non dimenticherò il film assurdo che guardammo un paio d’ore dopo, nonostante del titolo né io né lei abbiamo più memoria.

 

Ho omesso numerosissimi dettagli nel mio racconto, se fosse un libro avrei una notevole quantità di spunti per gli spin-off.

L’ho fatto perché voglio arrivare a ottobre scorso, quando ho deciso di partecipare al progetto Pink Ambassadors.

La fase 3, quella della condivisione. Che pensavo fosse la più semplice ma mi accorgo essere la richiesta più dura che faccio a me stessa.

Che peso può avere la mia testimonianza in una raccolta fondi? Perché la mia voce dovrebbe sensibilizzare gli animi, già presi da qualche sfida altrettanto complessa?

Sarà per questo che ho rimandato per mesi il racconto di questa storia.

O forse perché, più umanamente, sentivo (e sento ancora) il bisogno di preservarla. Che fosse solo mia e di chi mi sta vicino. O perché temevo (e ancora temo) di non riuscire adeguatamente a comunicare lo spirito propositivo e tenace con cui ne ho fatto una possibilità di crescita.

 

Poi ha prevalso la parola. Ha prevalso in un giorno piovoso di aprile, a casa tra una lezione e l’altra, mentre guardo fuori dalla finestra e mi sento così grata alla vita, a chi sta contribuendo, in questa gara di biglie, a farmi sentire autonoma ma accompagnata, resiliente senza eroismo, responsabile e legittimamente fragile.

 

Prevale la parola perché ha il potere di spiegare il mio, il nostro concetto di speranza.

Non una luce accesa a caso, ma quella alimentata da ogni ricerca finanziata, da ogni scoperta supportata, da ogni diagnosi precoce, da ogni stile di vita migliorato.

E questo sento che vale lo sforzo di riempire la pagina e rileggere tra le righe una fatica che non sono mai riuscita a riconoscermi, perché troppo impegnata a compierla, ma che riconosco in tante donne come me, più forti e coraggiose di me, a cui la ricerca ha salvato la vita.

Supportarla è il nostro modo per dire grazie.

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